top of page
ROB 20.tif

BLOG

Roberto Frazzetta scrittore

 
  • Immagine del redattoreRoberto Frazzetta

"Crocify your mind"

Aggiornamento: 3 nov



Capelli lunghi e corvini, di solito con occhiali scuri che evocavano il blues. Vestito quasi sempre di nero e con un cappotto logoro per ripararsi dal gelo del vento di città. Era uno spirito vagabondo, spesso lo trovavi all’angolo della strada, Detroit aveva molti cantoni sperduti nel 70 e la povertà, quella vera, era ovunque manifesta nei quartieri desolati e nelle zone abbandonate. Tutte le strade erano avvolte dal fumo che risaliva dal fiume. Un’atmosfera di mistero e nebbia, fredda e rozza, degna di ambientazioni alla Sherlock Holmes. Il bar che puntai era il Brewery, giù verso il fiume. Ero alla ricerca di un musicista errante o uno dei tanti spiantati della zona.

Quando entrai nel locale, l’aria m’investì pregna di fumo di sigarette e caos. Il posto era affollato e tutt’intorno c’era caos, tavoli spostati con posaceneri zeppi di cicche e gusci di noccioline finiti in terra. Poca luce illuminava il bancone del bar e una televisione completava con incuranza l’arredamento distopico del posto. Detroit non era affatto diversa dai venti anni prima, certo la civiltà e il progresso avevano provato a ristabilire una sorta di compromesso tra il decadentismo e la fatiscenza della città, ma senza troppi risultati nell’atteggiamento collettivo della gente. Come una vecchia artritica trascinava la gamba dei suoi dolori che non sarebbero svaniti mai. Eppure in quel miasma sonoro e oscuro, una melodia distratta trapassava la coltre del fumo e a ogni passo, mi avvicinava alla persona che stavo cercando. Seduto a un tavolo e voltato, spalle al mondo, imbracciava la chitarra e cantava una canzone speciale.

Qualcosa tuttavia dal contenuto intimo.

“Sugar man vuoi darti una mossa? Sono stufo di questo scenario. Per una moneta indegna, restituirai i colori ai miei sogni?”

Lo avevo trovato. Era lui. Lo guardai in silenzio in disparte. Pensai alla sua storia.

Lui si chiamava Sixto Diaz Rodríguez, conosciuto anche come Jesus Rodríguez o, meglio, semplicemente come Rodríguez.

Diciamo che Rodríguez era stato, alla fine degli anni '60, uno dei tanti cantautori degli Stati Uniti. Davvero niente male.

Di famiglia semplice, padre messicano, arrivato poverissimo nell'America degli anni '20, e madre americana. O meglio un po' "nativa-americana", un po' europea. Un ottimo misto, insomma. Mamma che purtroppo morì quando lui aveva solo tre anni.

L’inizio di un sogno infranto. Sixto Diaz crebbe in una famiglia assai numerosa, il nome "Sixto" gli venne dato perché quando nacque a Detroit, il 10 luglio 1942, fatta la conta dei figli, lui era, appunto, il sesto.

Le sue canzoni erano poesie di attualità e impegno. Molto "parlate", un po' Dylan, un po' alla Donovan, un po' alla Neil Young. C'era la chitarra, c’era l’orchestra, c'era la sua voce e c'erano i suoi testi impegnati, di denuncia. D'altronde i tempi erano quelli. Insomma, a venticinque anni l’uomo che stavo guardando seduto in disparte a suonare per tutti e per nessuno era riuscito a pubblicare negli Usa il primo disco, "I'll Slip Away" firmato con il nome Rod Riguez. Una ballata folk dalla dimensione perfetta, una decantazione nasale cantata in prima persona. Era il 1967, Bob Dylan si spezzava la schiena cadendo dalla sua Triumph, dopo aver prodotto quattro tra i dischi più famosi della storia.

Rodriguez portava sulla sua schiena il peso del primo Flop. E infatti, Sixto impiegò tre anni a digerire il fallimento, fino a quando non riuscì a firmare uno straccio di contratto per una minuscola casa discografica di Los Angeles, la Sussex Records, sotto marchio della più famosa Buddah Records.

E' grazie a questo contratto che riuscì a pubblicare due LP, due album capolavoro, il primo nel 1970 (Cold Fact) e nel 1971 (Coming From Reality) che naufragarono pochi anni dopo assieme alla piccola etichetta che li produsse. Ancora niente.

Il mondo sembrava non accorgersi di lui e la sua magia.

Poche centinaia di copie in tutti gli Stati Uniti. Davvero poche centinaia. Un fiasco. Roba dura da mandare giù.

Qualcosa di cui non ci si capacita, quanti come mai, come cazzo mai era possibile? Forse avrà “pensato” a causa dei suoi testi troppo impegnati, forse per il suo stile troppo Dylan, anche se la sua voce era più decisa, pulita, quasi cristallina, oppure forse per quel suo nome troppo "messicano", nome che nel frattempo aveva accorciato semplicemente in "Rodríguez".

Davvero un brutto risultato… Come la canzone che sentivo cantare ora "Sugar Man", provocatoria ode dalle atmosfere musicali oniriche e psichedeliche dedicata al proprio pusher, quasi fosse lui, e non altro o altri, l'unico dispensatore di speranze.

Un giorno gli arrivò una lettera a casa. Era della sua etichetta discografica. "Ciao, ci abbiamo provato, abbiamo fallito. Ci spiace. Contratto rescisso. Buona fortuna. Addio". Una brutta botta, per Sixto Díaz in arte Rodríguez. Che a quel punto si arrese, appese la chitarra al chiodo per fare il manovale edile, l'operaio e anche tagliare l'erba dei giardini privati. Perché alla fine più che cantare si deve campare. Il 13 ottobre del 1976 Rodriguez smise di suonare, si trovò un lavoro e comprò all’asta una casa semi-demolita e abbandonata nel sobborgo di Woodbridge per poterci passare il resto della sua esistenza.

Sixto, un uomo gentile, sembra uno sciamano disperso in quel locale fumoso, il suo sguardo è sereno e accoglie sorridente la mia richiesta di sedermi accanto a lui. Gli offro una birra e gli chiedo di suonare ancora per me, si scusa per la sua imprecisione, non è un musicista professionista, mi dice che è più bravo nei lavori manuali, che ha fatto questo per decenni, ha fatto il muratore. Le sue mani lo testimoniano. Ha costruito case a basso costo nelle periferie americane, case da due soldi, perfette per crescerci una famiglia, di quelle con il giardino dietro e le pareti che con un cazzotto le butti giù. Gli chiedo se gentilmente ha voglia di suonarmi “Cause”. È stupito e quasi non ci crede, mentre le dita premono le corde, canto con lui i primi versi e si chiede com’è possibile che io conosca quella canzone.

“Cause the sweetest kiss I ever got is the one I've never tasted”

“Vengo dal futuro.” Gli faccio mentre ancora una lacrima mi scende sul volto in quel locale fosco. Sixto mi mette la mano rugosa e vissuta sopra la mia e batte. Sorride anche se non comprende del tutto.

“Non mi dire… Sei uno di quei pochi che hanno il mio Lp?”

“Oh sì, sono tutti dei capolavori. Mi dici come hai fatto a ottenere quel risultato eccezionale?”

“Dai, amico, i risultati eccezionali possono essere raggiunti soltanto da coloro che osano credere che dentro di loro risiede una forza superiore alle circostanze esterne.”

“E tu ci credi?”

“Con tutto me stesso.”

Sixto, mi racconta che la passione per la musica gli ha dato la forza per crearsi una famiglia, ha fatto sempre l’operaio, è diventato un’attivista del sindacato. Nel 1981 e nel 1991 si è candidato a Sindaco per la città di Detroit, perdendo le elezioni. Si è laureato in filosofia e l’unica grande costante nella sua vita è stata proprio lei: la musica.

“Una piccola parte di me continua incessantemente a coltivare quel seme fatto di musica e sogni. Le canzoni e le note, ho scoperto da qualche tempo, sono dirette a me, il mio più grande ascoltatore, sono la mia più profonda forza. E mi hanno donato la pace.”

“La pace è una bella cosa. Però non ti dispiace il fatto di non aver fatto sentire questa pace a molti?”

“Certo, che mi spiace. E continuo a coltivare.”

“Se avessi fatto carriera, ci sarebbe differenza in te?”

“Che differenza può fare oggi, alla mia età? La carriera è un’invenzione della macchina moderna. Non smetterò mai di coltivare quel seme, anche se non diventerà un fiore per il giardino di altri, lo è per me. E questo, semplicemente, mi basta.”

Abbasso lo sguardo dall’emozione. Come dirgli che questo fiore è già un albero di vita?

Non spetta a me.

“Non smettere mai di crederci, amico. Mai.” Aggiunge sorridendo.

“E questo è un dato di fatto.” Gli sottolineo.

“Allora ti piacciono proprio le mie canzoni? Grazie. Vedi, basta conquistare anche solo una persona e non mi sento neppure i miei cinquantasei anni stasera. Mi stai riportando indietro nel tempo.”

“Mi faresti ascoltare I think of you?”

Un sorriso così genuino in quel volto misto sangue e le sue mani riprendono la chitarra.

“Lo sapevo che eri tipo da questa canzone.”

Inizia a suonare e le note mi entrano dentro, non sento più nient’altro che la melodia. Lui lo sapeva che ero il tipo… quello che non poteva sapere Sixto è che nel 1974 una ragazzina americana in visita al suo fidanzato porta in Sudafrica i suoi vinili con la sua musica che come un virus non debellabile si diffonde, viene copiata in tutto il Sudafrica, nel Botswana, in Rhodesia e poi addirittura in Nuova Zelanda e in Australia. Tanto che case discografiche sudafricane e australiane acquistano i diritti di alcune sue canzoni. In quel periodo, nel regime segregazionista di Pieter Willem Botha, le sue canzoni sono addirittura censurate perché i suoi testi attecchiscono nel pensiero sovversivo popolare che tramite le musicassette e il passaparola ottiene massima diffusione e la sua musica viene eletta, in poco tempo, quale bandiera della lotta all’Apartheid, grazie a testi che denunciano l’establishment, il pregiudizio sociale e l’oppressione. In ogni casa sudafricana che denunciava la regola conservatrice dell’epoca erano presenti i dischi di Rodriguez, insieme a Abbey Road dei Beatles. Sixto diventa a sua insaputa un mito, un manifesto per il significato delle sue canzoni, tanto che il mistero avvolge la sua persona creando addirittura leggende intorno a lui. Molto fantasiose per giunta, si dice che sia rinchiuso in manicomio perché completamente pazzo, oppure che si sia dato fuoco sul palco durante un suo concerto o che addirittura sia morto suicida sparandosi un colpo in testa sempre durante una delle sue esibizioni in America.

O che fosse divenuto cieco.

Insomma, Rodriguez negli anni 70 e 80 diventa il più famoso cantante americano in Africa, più di Dylan, Jagger e Morrison. Più di Elvis. E lo erano le sue canzoni, a tal punto da creare zelanti agenti che si recavano nei negozi di dischi e nelle radio private per graffiare personalmente con un chiodo e rendere così non trasmettibili né ascoltabili, i brani che denunciavano in qualche modo ingiustizie e razzismo.

"La spazzatura non viene raccolta, le donne non sono protette. I politici utilizzano e abusano le persone. La mafia sempre più grande, come l'inquinamento nei fiumi, e tu ti limiti a dire che la situazione è questa".

"Mi faccio domande sulle lacrime negli occhi dei bambini e mi faccio domande sul soldato che muore. Mi chiedo se questo odio avrà mai fine, mi chiedo e mi preoccupo per il mio amico, e mi faccio domande sulla mia meraviglia..."

Con le radio sudafricane che trasmettevano lo stesso, a manetta, le sue canzoni, e con i negozi che vendevano a centinaia, a migliaia, a centinaia di migliaia, i suoi LP senza che lui ne sapesse nulla.

Dischi "bootleg", tutti illegali.

E così avanti per anni, per un paio di decenni. Nel 1981 gli viene addirittura assegnato un disco di platino in Sudafrica, e la sua fama è pari se non superiore a quella di mostri sacri come Bob Dylan o i Rolling Stones. Intanto qualcuno, uno statunitense, incassa i diritti delle vendite dei CD, dal 1991 stampati anche in Sudafrica. Il proprietario della Sussex Records, Clarence Avant. IL capo della Mototown Records, un’etichetta discografica gigante, che quando fu contattato più volte non rispose mai a chi faceva domande scomode. Un essere spregevole forse. Uno che non si faceva troppe domande quando riceveva soldi. Ovviamente, senza aver mai proferito parola, intascando soldi senza dare un dollaro a Rodriguez. E lui lì, a migliaia di chilometri, in America, a spaccarsi la schiena di lavoro.

Che storia… già fino a qui basterebbe per essere incredibile.

Finisce la canzone. Sixto mi guarda e sorride. Non sa ancora perché sono così stravolto. Sentire cantare lui, è sconvolgente. Ancora non sa. Però oggi primo marzo 1998, Eva Rodriguez sta entrando nel locale fumoso, dove sa che suo padre, ogni tanto di sera, si siede dopo la giornata di lavoro a bere e suonare un po’ la chitarra, e la vedo entrare, socchiudere gli occhi per il fumo e cercarlo nella sala. La vedo avvicinarsi, Eva, una delle tre figlie cresciuta a pane, arte e umiltà, la vedo sedersi vicino al padre e osservo anche lo sguardo amorevole di Sixto che comunica un amore raro e anch’esso coltivato nel tempo. Eva è agitata, incredula, non crede alle parole che sta dicendo al padre in quella bettola. Ha ricevuto una telefonata da due persone dall’altra parte del mondo. Stephen Segerman, titolare di un negozio di dischi che continuava a vendere centinaia di dischi di Rodríguez e Craig Bartholomew Strydom, giornalista locale. Questi due signori trovandosi a parlare di lui una sera, spinti dall’amore che la sua musica gli evocava, decisero che avrebbero tentato finalmente capire che fine avesse fatto, di che morte fosse davvero morto, dove fosse seppellito Sixto Diaz Rodríguez a un certo punto detto Jesus. Incominciarono da zero: perché notizie assolutamente non ce n'erano. Nulla, in nessun angolo remoto della rete. Avevano bisogno di scovare qualche indizio. E allora, per capire qualcosa di più del loro idolo, si misero a studiare una a una le parole dei suoi testi, per capire eventuali riferimenti, una situazione, un luogo, dettagli utili a rintracciare magari qualcuno che sapesse qualcosa di lui. Aprirono una pagina su internet, che nel frattempo era finalmente giunto, nella quale chiedevano aiuto "al popolo della rete". E proprio mentre un indizio lo avevano trovato, il riferimento, in una sua canzone, a una zona, un luogo Dearbon alla periferia di Detroit, al loro indirizzo e-mail si fece viva una ragazza americana arrivata casualmente sul loro sito. Una ragazza che era arrivata a loro perché voleva vedere se in rete c'era qualcosa sulla "prima vita" di suo padre. Suo padre che faceva l'operaio, il carpentiere in una ditta di costruzioni e demolizioni, e il giardiniere pure, ma che tanti anni prima, negli Stati Uniti, aveva fatto il cantante. Una ragazza che si chiama Eva Alice Rodríguez.

Gli racconta tutto minuziosamente e gli dice che lo stanno cercando da anni, che è un mito, che addirittura c’è un sito in suo nome, che per anni lo hanno creduto morto e che vorrebbero organizzargli un concerto in Sudafrica.

Sixto sorride, è sereno, forse non ci crede. O forse l’ha fatto da sempre, ogni giorno della sua vita, in ogni respiro al freddo. Il seme coltivato a Detroit era diventato una quercia in Sudafrica.

Io mi sono allontanato… faccio per andarmene.

Un ultimo sguardo tra noi, poi Sixto si alza in piedi e viene verso di me, è tutto un attimo. Mi stringe la mano ed io tocco la sua.

“Vieni davvero dal futuro?”

“Sì.” Faccio io.

“Allora dimmi cosa accadrà domani.”

“Domani?”

“Domani.”

“Inizia il periodo del tuo raccolto. La tua seconda vita. Avevo bisogno di vedere questo momento. Sentire chi sei. È stato un onore ascoltarti. Grazie.”

“Non smettere mai, amico.”

Poi Eva lo prende sottobraccio. Ha voglia di raccontargli tutto. Sixto salta ancora con lo sguardo da me alla figlia e poi definitivamente a lei.

"Ehi, ragazzi! Non scherziamo, macché morto! E' inutile che cerchiate la sua tomba! Guardate che Rodríguez è vivo, vivissimo. Ve lo assicuro io, sono sua figlia!" dice di aver detto al telefono. Eva è incredula, mentre svanisco nella coltre di fumo.

Non poteva credere che suo padre l'operaio, in Sudafrica fosse un idolo dei giovani, un cantante ancora osannato, e che i suoi dischi fossero tuttora in vendita, e a migliaia. Tutti illegali. Ci credette solo dopo che vide, via e-mail, la rassegna stampa su di lui, e le copertine dei suoi album.

Quando il 4 marzo 1998 era sull'aereo che l'avrebbe portata in Sudafrica, la famiglia Rodríguez pensava ancora che tutto quello fosse una specie di scherzo.

Eppure, dopo quella telefonata di Eva, lei e suo padre stesso si erano sentiti un sacco di volte con quei due ragazzi sudafricani che per rassicurarli avevano spedito biglietti, l'indirizzo dell'albergo, l'imponente rassegna stampa dei giornali sudafricani che parlavano del suo probabile viaggio. Qualche dubbio, per la verità, ce l'avevano anche Stephen e Craig. In fondo chi poteva assicurare che quello là, quello al quale avevano inviato biglietti e inviti, non fosse un impostore? Possibile che davvero fosse ancora vivo? Ma non si era ucciso sul palco? Perché stava pure diventando cieco. Lo sapevano tutti. Quando atterrò a Città del Capo, Sixto Rodríguez era incredulo e intontito. All'uscita dell'aeroporto, stava entrando dritto nell'utilitaria di un parente di qualche passeggero appena sbarcato perché davvero non poteva pensare che quelle due lunghe limousine fossero lì per lui, la sua famiglia e per i giornalisti e i fotografi al seguito. Così come davvero lui, la moglie e le sue figlie non potevano credere alle loro orecchie quando sentirono cosa dicevano in quell'istante le radio di Cape Town, che proprio stavano facendo la diretta del loro sbarco raccontando nei dettagli il loro passaggio sulle strade che portavano in città. Come non potevano credere ai loro occhi, quando videro che ai lampioni lungo la strada c'erano decine e decine di manifesti con la sua foto. Poster enormi che annunciavano il concerto di Rodríguez. Quel giorno non passarono nemmeno dall'albergo, ma s’infilarono subito in una sala prove, dove un gruppo di musicisti locali attendeva ancora più incredulo. Inevitabile che anche loro pensassero a uno scherzo, e anche di cattivo gusto, giocato ai loro danni. Suonare con Rodríguez? Con Sixto Rodríguez? Suonare davvero per lui?? Ma come poteva essere possibile, visto che era morto da almeno vent'anni su un palco! Si era bruciato vivo... o forse no, l’aveva fatta finita con un colpo di pistola. E comunque era cieco. In studio, tutti erano lì con il fiato sospeso, ad aspettare la prima nota che la sua voce avrebbe emesso. E quando dalla gola di Sixto Rodríguez uscì la prima parola cantata, a tutti vennero le lacrime agli occhi. Con i musicisti che restarono con la bocca spalancata. Con Stephen e Craig che urlarono dietro al vetro. Di gioia. Era lui. Era proprio lui, cazzo! Alla faccia del fuso orario, restarono in sala prove per due giorni. Due giorni che passarono al volo.

La sera del concerto, la moglie e le figlie di Rodríguez quasi si spaventarono quando videro la folla fuori, in attesa di entrare. "Diciamo la verità: noi ci aspettavamo al massimo un centinaio o poco più di persone!", racconta una delle sue figlie. Eva iniziò a girare fra la gente e a fare foto, ridendo come una scema. Doveva fare decine, centinaia, di foto perché "a casa" nessuno ci avrebbe creduto, altrimenti. E anche lui stentava a crederci, quando sbirciò da dietro le quinte. Quel 6 marzo 1998, mentre faceva i primi passi sul palco, Rodriguez pensava agli schiaffi che aveva ricevuto in quei venti e passa anni, ai flop, alla casa che aveva costruito, alla chitarra appesa al chiodo, e più di tutti alla forza impetuosa dei suoi sogni. Ma lui, ora era lì, su un palco, vent'anni dopo, illuminato da decine di riflettori e con i suoi occhi, che negli anni vedevano sempre meno, abbagliati dalle migliaia di flash dei telefonini. Lui era fermo, immobile, a guardarsi intorno, fra quegli applausi e quelle urla, avvolto dai fischi di approvazione, da quelle incredibili manifestazioni di gioia. Poi Sixto Diaz Rodríguez detto Jesus, l’americano risorto di Detroit, fece finalmente qualche passo, per poi fermarsi di nuovo incantato a guardare quel delirio che lo abbracciava. Uno Sciamano in preda alla visione più bella. In fondo non è quello che tutti speriamo? Che i nostri sogni, le nostre più alte aspirazioni, un giorno vengano riconosciuti e che il nostro talento all’improvviso diventi visibile a tutto il mondo? La maggior parte di noi muore senza nemmeno avvicinarsi a quella magia.

Con quelle bellissime ragazze, giovani come un fiore di campo, che urlavano emozionate insieme a donne che potevano essere le loro madri. Con i loro ragazzi, e uomini, molti con i capelli grigi, anzi, bianchi, che si spellavano le mani per applaudire, che si sgolavano per urlare. E che lo guardavano come se fosse stato Lazzaro. Resuscitato, appunto. Rideva, al pensiero che quelli lo acclamavano e lui non aveva ancora nemmeno iniziato a cantare. Con lui che poi si avvicinò al microfono alzando il pugno della mano destra e dicendo, ridendo un po': "Thanks for keeping me alive"

Grazie per avermi tenuto in vita. Fino a quando, finalmente, iniziò a cantare il brano "I wonder". "Mi chiedo quante volte occasioni hai avuto, e mi chiedo quanti tuoi piani siano andati 'a monte. Mi chiedo quante volte hai fatto sesso, mi chiedo se sai chi sarà il prossimo, mi chiedo, con meraviglia, della meraviglia che provo." I primi minuti dei suoi brani erano sempre coperti da boati che devono aver fatto sobbalzare pure l'anziano Nelson Mandela, che in quel momento era a casa. Mentre lui, Sixto "Jesus" Rodríguez cantava. E sua moglie e i suoi figli, piangevano. Travolti da una disperata gioia. Quel pianto disperato che solo chi ha vissuto in miseria, contro tutto e tutti, riesce a tirare fuori dalla pancia, dallo stomaco, dalla gola, quando davanti gli si presenta una nuova vita. In Sudafrica, in quei giorni, gli venne anche consegnato il "disco d'oro", come riconoscimento delle centinaia di migliaia di copie vendute. Con lui che rivolto ai giornalisti e agli invitati disse, alzandolo sopra la testa: "Adesso però ditelo agli americani, ok?". E tutti giù a ridere. Dopo accadde che fu ospite nelle maggiori trasmissioni delle tv sudafricane. E dopo fece due tournée in Sudafrica ma anche in Botswana e in Zimbawe che definire "trionfali" è un eufemismo. Perché furono tutte un "sold out". Tournée che poi, ovviamente, si replicò sempre "sold out" anche in Australia e Nuova Zelanda. E dopo ancora furono ristampati i suoi dischi, questa volta legalmente che l'eco raggiunse anche l'America dove, una volta tornato, trentadue anni dalla prima laurea, la Wayne State University di Detroit, la sua università, gliene consegnò un'altra "honoris causa". "Per il suo genio e l'impegno per la giustizia sociale musicale", diceva la motivazione. Oggi Sixto Diaz Rodríguez, detto anche Jesus, ha settantasei anni e non si è fatto per nulla "corrompere" dall'improvvisa notorietà, dal benessere finalmente raggiunto. La sua storia, raccontata nel film "Searching For Sugar Man", lo ha riportato sui palchi di teatri e auditorium, passando in un solo anno,dal 2012 al 2013, da una media di duecento spettatori a concerto, a quella di diciottomila. Con intere date "sold out", biglietti esauriti. Soltanto il suo ultimo tour in Sudafrica pare gli abbia fruttato qualcosa come settecentomila dollari, più di 513mila €uro.

Ma lui abita ancora in quella casa un po' malconcia di Detroit comprata per un pugno di dollari, dove non ha televisione né riscaldamento. Con i suoi guadagni che oggi preferisce destinare alle figlie e agli amici bisognosi.

"Mio padre non faceva che ripeterci che non è una vergogna essere poveri. Noi vissuti tra la fine degli anni '60 e '70 eravamo convinti che ci sarebbe stata una rivoluzione nel mondo, poi tutto si è ripiegato su se stesso. Ma io continuo a pensare che anche i biblici Salomone e Davide erano musicisti, e che la musica resta sempre la più potente comunicazione che esista in cultura.

La musica è una celebrazione della vita".

Nel frattempo Sixto Diaz Rodríguez si è rimesso a scrivere e fra vecchi pezzi rimasti nel cassetto per trent'anni e quelli scritti di recente, il materiale per un nuovo album non mancherebbe, questa volta di sicuro successo, album che la sua casa discografica di oggi gli chiede a gran voce. E prima o poi uscirà. "Ma ora non ho fretta. Sono nonno adesso. E alla mia età voglio solo godermi i miei nipoti e la serenità di chi mi sta vicino. E la villa con piscina, adesso, non mi serve più."




Biografia: Searching the Sugar Man; vari siti internet. Cold Fact/ Coming from Reality

76 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

"Bad Things"

"Poison Heart"

LAYOUT FOTO TONDE 2.gif
LAYOUT FOTO TONDE 1.gif
bottom of page