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Roberto Frazzetta scrittore

 
  • Immagine del redattoreRoberto Frazzetta

"Satiè Cyberpunk" 1/7

Aggiornamento: 20 apr 2020



La sala dell’Hotel Majestic era piena di gente. Nova Edo da questa altezza era immensa e fuori dalle vetrate brillava intermittente nei suoi livelli architettonici. Nell’aria c’era qualcosa d’importante. Espressioni di entusiasmo e ilarità. Molti connazionali erano giunti dalle stazioni orbitanti di Luna e Marte per me. Per la mia musica. C’era del mormorio nella sala, un piccolo rinfresco a base di champagne marziano e uramaki special sakè, tanto per enfatizzare l’incontro di due mondi, due culture, due substrati di banalità culinaria. Io me ne stavo nascosta in disparte mentre già sarei dovuta essere lì al centro. Mio padre era un Mat impaziente, nemmeno tutta l’eternità gli sarebbe servita da lezione e si era seduto tra le prime file, appena mi vide da lontano, si era mosso come uno spettro fino al pianoforte e aveva aperto l’ologramma ritmico evocando lo spartito, poi si era tornato a sedersi.


Lo sentivo lodarsi dell’estrema fregiatura dello strumento costruito direttamente su Harlan’s World con il pregiato legno degli antichi alieni, il legno di Stelicanto.

Annuì con la testa. Questo doveva essere il segnale. Il momento esplicito nel quale dovevo ricordarmi che la sua pazienza era terminata.

Accortami di quello, mi rimase solo di attraversare la sala e sedermi nel centro. Ero stanca di essere il fenomeno da baraccone di mio padre e del nome della sua famiglia. Avrei voluto cancellare quella mia appartenenza. Ero stanca di essere intrappolata in una custodia da adolescente. Avevo accettato di abitare quel corpo confezionato su misura per entrare in empatia con la musica, arricchito nel sistema nervoso con pregiati empatogeni a rilascio multifrequenza.

All’epoca pensavo che fosse l’esperienza più esaltante per una musicista di talento quale ero, non avrei mai creduto all’insistenza di mio padre. Ora ne ero certa. Non ne sarei mai uscita. La mia vita e la mia famiglia erano la stessa cosa, ero legata al buon nome della tradizione e della notorietà con una catena pesante. Ero la schiava artistica di mio padre. Un Mat vuole tutto. “Yuki, è arrivato il momento.” Akitomo Mirakame, il direttore del Majestic di Nova Edo, era il più agitato. Dalla testa diradata di capelli, il cuoio calvo sudava goccioline che non scendevano mai. “La stampa è arrivata da mezz’ora e non amo essere in ritardo con i programmi.”

Era il momento e sentii un sussulto al cuore come tutte le volte. “Chissà se lo vedrò ancora?” pensai. Il corpo iniziò a muoversi animato dall’obbligo così mi mossi per entrare in scena e nel processo di quella sfilata mi chiesi come ogni volta se lui fosse tra i presenti. Forse era una questione di pazzia, una patologia provocata dall’assuefazione alle catene, forse lui era opera della mia fantasia. “Un disperato tentativo di ribellione psiconeurale che sentendosi in trappola genera un immaginario salvatore. Allucinazioni autoindotte. Trattabili.” Così in parte aveva concluso il Dottor Bellard con cui parlavo da mesi durante i miei spostamenti per ripetere ogni sera lo stesso spettacolo. Mio padre non fu felice di pagare la sua parcella a patto certo che prescrivesse la soluzione. Pillole. Il tempo non cambia i grandi peccati.

Nel muovermi le pastiglie produssero un rumore strano nella tasca. Riuscivo spesso a eludere i controlli di mio padre e saltare la cura. Proprio quelle pillole promettevano di non farmi più incontrare l’ombra che solo io vedevo. Ed eccomi. Ero la ragazza triste che suonava il pianoforte. Mentre passavo tra le poltrone a sospensione del pubblico, il mio sguardo non si sollevò da terra. Mi piaceva pensare che forse molti, proprio mentre applaudivano stimolati fino alla ghiandola pineale dalle frequenze della musica, non riuscissero a vedere solo che una ragazza timorata dall’etica austera. Una rarità per i nostri tempi. O forse pensavano che fossi solo una ragazza triste.

Questo importava più poco, con quella custodia non riuscivo nemmeno ad odiare. “Quando mi siederò le dita si fermeranno in aria. Non so dire quanto potrà durare. La musica arriverà.” Mi diceva una parte del mio cervello. Aspetta la musica. Alla fine arrivava sempre. Rimasi seduta, avvolta dal chiarore dei riflettori. Il silenzio della sala divenne denso di aspettative. Vedere una mia esibizione costava molti crediti. Intere orde dipendenti dalla mia musica disposti a spendere cifre esorbitanti. Un Mat vuole tutto. La luce intorno calò quel tanto da permettere ai miei spettatori di divenire pallide ombre. Arrivava dapprima il silenzio e poi la perdita dell’udito comune. Ed io sapevo che Lui era presente. L’unica ombra che volevo continuare a vedere. Mi seguiva in tutte le mie apparizioni. Forse era anch’egli un ammaliato della musica. O di me? Quella sera il mio sguardo si alzò e dai tasti saltò alla prima fila che intorno a me creava un enorme cerchio. Mi fermai fissando gli occhi del mio anziano maestro, Dogai che mi seguiva nella musica, lo aveva scelto mio padre dicendo che lui era il più bravo, un mago della melodia. Un sussulto al cuore, riconobbi nei suoi tratti un qualcosa di strettamente famigliare qualcosa che andava oltre al legame di studio che ci univa. Non riconobbi in lui un Hindustan dai lunghi capelli d’argento. Lo vidi con un'altra faccia, una parte di me lo distinse. Lui accennò un lieve sorriso. E poi il mio spettatore si annunciò!

In fondo alla sala, nascosto nel cuneo di ombra, in quel limbo che passava da nero a oscuro. Lo vidi ancora. Impassibile, mi fissava come in quel misto di preoccupazione e amorevole attenzione. Il suo vestito, così intenso da far stonare tutti gli altri, era un elegante ricamo di filamenti d’orati. I capelli raccolti nel magò tradizionale Meji e le sue spade strette al corpo. Lui alterava lo spazio e il tempo. Il mio samurai. La mia ombra. La mia protezione. Dogai si voltò. Anche lui riusciva a vederlo. Si scrutarono. Poi gli occhi di entrambi vennero a me. Nella sala qualcuno si turbò per quell’esitare. Mio padre.

Nessuno poteva vederlo a parte me.

Quando arrivò la musica, le mie mani da ragazzina si alzarono sopra i tasti. Ne uscirono innumerevoli filamenti nervosi che si posarono come granelli di pulviscolo sopra i tasti bianchi e neri. La testa si chinò come un’offerta, tutto il mio sangue per un suo sguardo, tutto il collo al mio samurai.

“Salvami.” Sussurrai con un flebile respiro. Le mani si appoggiarono lievi, iniziarono a danzare con l’infinito e finalmente divenni musica. L’unica dimensione dove io e il mio samurai potevamo essere uniti.

Le sue lame presero la danza.

Forse sarebbero riuscite a tagliare le mie catene. (continua...)




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